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RUGGERO II ALTAVILLA

Ruggero II D’Altavilla

Compiamo il giro di boa nell’analisi stilistica del Medioevo con una storia che ha volutamente l’obiettivo di far storcere il naso agli ignari amministratori del nostro bel paese.

Correva l’anno 1130 quando Ruggero II, della dinastia degli Altavilla, venne incoronato Re di Sicilia con una sontuosa cerimonia volta a celebrare le prodezze artigianali, stilistiche e soprattutto seriche del territorio siculo. L’evento ebbe luogo nel sontuoso Palazzo dei Normanni, tutt’oggi visitabile a Palermo. Considerata la più antica residenza reale d’Europa, presenta un nucleo arabo successivamente trasformato dai Normanni nella celebre Cappella Palatina, mezzo di misura della ricchezza della corte soppesata attraverso mosaici e oro. Guy de Maupassant scrisse a proposito del luogo: “la più bella chiesa del mondo, il più sorprendente gioiello religioso sognato dal pensiero umano”.
Le crociate, di cui ho avuto modo di fare un accenno nello scorso numero parlando di Eleonora D’Aquitania, oltre a rendere floridi i commerci di manufatti con l’Oriente, fecero si che progressivamente ci fosse una sistematica contaminazione di simboli sacri e profani, propiziatori e apotropaici che divennero delle vere e proprie effigi diffuse da regnanti e aristocratici.
Passiamo in rassegna alcune delle principali rivoluzioni costumistiche provenienti da questi luoghi: la porpora proveniva da Tiro, l’impiego sistematico dell’oro, oltre che le innovative modulazioni della veste, provenivano da Bisanzio così come i motivi a medaglione delle tuniche ortodosse. Tutti rimanevano esterrefatti dalla bellezza di quelle tradizioni lontane che si spingevano fino alle mode in voga nell’Impero Cinese, giunte in occidente tramite le vie della seta.
Tra i simboli che caratterizzano il folclore artigianale della Sicilia del XII secolo, oggi vi parlerò del manto di Ruggero II di Sicilia. Capo tessuto e ricamato appositamente per la lussuosa cerimonia di incoronazione, il mantello di Ruggero II non fu semplicemente il dettaglio sfarzoso di una cerimonia opulenta, ma una vera e propria affermazione di potere declinata attraverso un capo d’abbigliamento. Il mantello sta al potere come i materiali che lo costituiscono stanno alle capacità produttive di una regione che, dal XV secolo, divenne il principale centro di distribuzione di seta dell’Europa meridionale.
Sotto il regno di Ruggero II vennero “invitati” a palazzo, forse con la forza, tessitori e tintori greci affinché lavorassero nelle manifatture reali per la realizzazione del guardaroba del nuovo sovrano.
Il mantello è di una seta rossa di ampie dimensioni, approssimativamente 345 x 146 cm. Il colore di fondo non è stato ottenuto dall’inchiostro di un mollusco, ma dal chermes ovvero un insetto. Per tutta la lunghezza di questo piviale semicircolare, troviamo ricami dorati, smalti e perle che riproducono una palma simbolo della vita. Ai lati della palma troviamo, simmetricamente, due leoni rampanti nell’atto di attaccare due cammelli. Il leone era il simbolo degli Altavilla e il cammello la rappresentazione dell’invasore arabo. Nella parte bassa è possibile trovare un fregio dorato con intarsi di perle e piccoli disegni geometrici. Le fodere sono tre, sostituite periodicamente per via dell’usura e anch’esse in seta. È importante sottolineare che la terza fosse in lampasso, particolare tipo di seta spessa molto ricercata.
Questo capo d’abbigliamento, che taglia trasversalmente la storia del nostro paese passando da un regnante all’altro come capo ufficiale dell’incoronazione, scomparì dai radar peninsulari con Enrico VI di Svevia, marito di Costanza D’Altavilla, che lo fece portare in Germania, quasi fosse un bottino di guerra, dopo la presa dei possedimenti Normanni in Sud Italia. Il crollo del Sacro romano Impero, e la successiva formazione dell’Impero Austro-Ungarico, fecero sì che il mantello arrivasse a Vienna senza che nessuno lo reclamasse.
Solo nel 1918, l’Italia, reduce vittoriosa dalla Prima Guerra Mondiale, nelle riparazioni di guerra imposte all’ex impero asburgico, rivendicò la restituzione di tutti i cimeli che nel corso dei secoli erano stati depredati dal bel paese, ma la commissione che si occupava della valutazione delle richieste di restituzione, non ritenne però di poter accogliere la richiesta in quanto il fatto era ormai decisamente caduto in prescrizione.
Il manto venne traslato ulteriormente nel corso della Seconda Guerra Mondiale; a seguito dell’occupazione nazista dell’Austria nel 1938, la reliquia entrò a far parte dei possedimenti di qualche gerarca del Terzo Reich, salvo poi essere restituito all’Austria alla fine del conflitto, ma perché all’Austria e non all’Italia? La provenienza del capo è chiara a tutti soprattutto perché ricamata sul fronte del piviale a chiare lettere: Eseguito nel tiraz reale di Palermo dove la felicità e l’ onore, il benessere e la perfezione, il merito e l’ eccellenza hanno loro dimora; di grandi liberalità, d’ un alto splendore, della reputazione, delle speranze; possano i giorni e le notti ivi scorrere nel piacere senza fine né mutamento nell’ onore, la fedeltà, l’ attività diligente, la felicità e la lunga prosperità, la sottomissione e il lavoro che conviene. Nella capitale della Sicilia, l’anno 528.
Nel corso degli anni, l’amministrazione sicula, in più di un’occasione si è mossa per pretendere la restituzione del reperto, oggi esposto nel museo imperiale di Vienna. Tuttavia, lo scarso appoggio da parte del governo, ha reso vano ogni sforzo. Non si tratta di una questione di emergenza nazionale, ma bensì di principio. Se non fosse possibile una piena restituzione, si potrebbe quanto meno pensare ad un prestito temporaneo affinché il nobile pezzo si possa ricongiungere con le sale del palazzo che per decenni lo hanno visto protagonista. Un’azione di moral-suasion è ciò di cui spesso abbiamo bisogno per evitare che situazioni come queste, o come quelle del Lisippo indebitamente esposto al Getty Museum in California nonostante le sentenze di confisca della Corte di Cassazione, si riverberino a danno del nostro patrimonio nazionale.
a cura di
Enrico Tironi
Studente Iulm Milano

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