Immaginate un piatto, riempitelo di aria e sensi di colpa. Impugnate la forchetta e tuffatela in quell’amalgama di paura, poi portatela alle labbra. Non è invitante, vero? Con il tovagliolo vi tamponate gli angoli della bocca, prima di alzarvi per rimettere la sedia sotto il tavolo. Per oggi basta così. Benvenuti nel mondo dei disturbi del comportamento alimentare, ancora poco conosciuti e molto stereotipati. Da 10 anni, il 15 marzo ricorre la giornata internazionale del fiocchetto lilla volta alla sensibilizzazione verso una problematica in costante aumento.
Non importa quanti anni hai, se sei maschio o femmina e non importa nemmeno il mese o il giorno in cui hai pensato per la prima volta di voler dimagrire. Ciò che conta è che l’hai pensato. Il mattino dopo hai tolto la bilancia e hai lasciato che fosse il suo verdetto a decidere cosa farti mangiare, inconsapevole che di lì a poco quell’oracolo di plastica e batterie si sarebbe trasformato in un appuntamento fisso. Troppo fisso.
Togliamoci dalla mente l’idea che un disturbo alimentare sia un capriccio, una fissazione o una dieta. Un DCA è una gabbia che ti costruisci con le tue stesse mani, senza rendertene conto. Credi di avere il controllo, inizialmente è così, ce l’hai davvero, poi è lui che ha te. E te ne accorgi solo quando le sbarre che ti sei costruito o costruita – queste cose non hanno genere – sono troppo strette per lasciarti respirare.
Un disturbo alimentare non dipende dalla volontà, non basta sedersi al tavolo a mangiare un piatto di pasta perché tutto torni come prima. Non è così semplice. Non è un raffreddore che senti arrivare con il primo freddo e con un po’ di attenzione lo curi. Un DCA non ti avvisa del suo arrivo, non ti manda notifiche sul telefono per metterti in allerta. Arriva e ti stravolge la vita in modo silenzioso, facendoti perdere la normalità cambiando un’abitudine alla volta, in modo da non rendertene conto. Un disturbo alimentare non ti parla: bisbiglia al cuore di spezzarsi. E gli sussurra di fare piano, gli altri non devono accorgersene.
Inizi togliendo giusto qualche alimento, quelli che sanno tutti non fare bene, poi aggiungi un po’ di sport che non fa mai male. Pure a scuola lo dicevano. Non è facile tracciare una mappa, stabilire un itinerario e risalire alle tappe che si attraversano. Fai qualche sacrificio in modo da raggiungere il tuo obiettivo. Ce la fai, ma decidi che non basta. Alzi un po’ l’asticella, ancora due chili, dai. Ce la fai, ma non basta. E se ne perdessi ancora tre? Non ti fermi, non riesci a fermarti. Non puoi farlo, perché non sei più tu ad avere il timone della barca.
Non succede tutto in una notte, passano anni e nemmeno te ne rendi conto. Un’abitudine alla volta e ci caschi in pieno. Ti abitui a tutto: alla fame, ai crampi allo stomaco, a quei leggeri capogiri che ti stordiscono per una manciata di secondi ogni volta che ti alzi, agli sguardi degli altri puntati nel tuo piatto, ai sensi di colpa che ti attanagliano lo stomaco non appena metti in bocca qualcosa. Fai l’abitudine a tutto, tranne che alla solitudine: ti avvolge come un bozzolo dal quale aspiri a liberarti per diventare farfalla. Ma ti senti elefante.
I vari lockdown hanno avuto conseguenze devastanti sulle persone con questo tipo di problematica: in un momento in cui il mondo andava alla deriva, si è sentito il bisogno di avere almeno l’illusione del controllo su qualcosa. La vita fuggiva come acqua tra le dita, anche se il tempo sembrava essersi cristallizzato e i giorni apparivano tutti uguali. Gli studi mostrano come i DCA siano aumentati in seguito alle restrizioni per contenere la pandemia, inoltre, molte persone che stavano tornando a vivere serenamente sono ripiombate nel girone infernale color lilla.
Una persona con un disturbo alimentare non sempre la riconosci per strada, l’anoressia non è necessariamente un corpo sottilissimo. Dietro ad un DCA ci sono una serie di paure e pensieri che non vedi, ma che sono insistenti. Come un ritornello di una canzone che non riesci a toglierti dalla mente. Avere un DCA significa perdere la normalità e – cosa che forse fa ancora più male – rendersene conto. Vederla davanti ai propri occhi, dall’altra parte della stanza, e non riuscire a raggiungerla.
Maria Ducoli