“La felicità è reale solo se è condivisa”, così diceva Chris McCandless, personaggio da cui è stato tratto il celebre film ‘Into the wild’.
Tralasciando il senso inteso dal protagonista del film, che molti avranno sicuramente visto, mi piacerebbe estendere il significato di questa frase a livello più ampio, inscrivendola nella società sempre più nevrotica in cui viviamo, partendo proprio da un assunto apparentemente ovvio ma non ancora del tutto accettato: non si mangia solo perché si ha fame e non si fa sesso solo per espletare un bisogno fisiologico (masturbazione) ma è la convivialità, la condivisione di qualcosa con altri, a spingerci all’atto, che è proprio ciò che differenzia l’uomo dagli animali.
Ed è proprio la condivisione con l’altro a renderci felici e gratificati in un processo di scambio reciproco di individualità, di intenzioni, di emozioni e percezioni, in cui l’amore e la presenza offerta viene in qualche modo restituita.
Ecco che, quando viene meno questo desiderio di condivisione e, più profondamente, questo bisogno d’amore, possono emergere alcune patologie: l’anoressica che si lascia morire di fame non avendo fame o colui che si abbuffa da solo per colmare un vuoto d’amore (‘binge eating’ e bulimia) fino ad arrivare alle parafilie sessuali, in particolare a coloro che sostituiscono un feticcio alla persona reale (feticismo).
Tutte “ferite d’amore”, come le chiama il noto psicoterapeuta e filosofo Massimo Recalcati.
Nell’anoressica/o viene meno l’appetito nonostante stia letteralmente morendo di fame, tuttavia ciò che deve essere curato non è quest’ultimo, bensì la relazione con gli altri (relazione primaria con madre e padre) che è stata difettosa, deludente, traumatica. Il controllo sul cibo tipico dell’anoressia dà a chi ne soffre la sensazione di poter condurre una vita all’insegna della purezza, del distacco e dell’autonomia assoluta. Chi riesce a non mangiare pensa di non aver bisogno di nulla e si illude di non aver bisogno di nessuno.
Quella che si sente non è fame di cibo, ma “è fame d’amore.”
Parallelamente il feticista sostituisce il suo oggetto d’amore con un feticcio (un oggetto o una parte del corpo altrui) perché entrare in relazione con la totalità reale e viva dell’altro lo terrorizza, anche qui a causa di una ferita d’amore primaria, una delusione lacerante che lo ha segnato.
Questo paradigma può essere esteso a tutti quei casi in cui la relazione con l’altro significativo, madre e padre, è stata gravemente difettosa e esperita, quindi, come deludente, come una ferita che ha portato con sé il rifiuto nel relazionarsi e condividere nuovamente qualcosa del proprio essere con qualcuno.
E’ facile rendersi conto come tutto ciò porti con sé infelicità ed isolamento profondo.
Un altro fenomeno da sviscerare partendo dalla frase “La felicità è reale solo se è condivisa” è senza dubbio quello sdoganato dai ‘social network’ che, dando voce ad ognuno di noi e, in particolare, a figure nuove quali gli ‘INFLUENCER’, hanno permesso e favorito la massima condivisione, talvolta eccessiva ma che funziona e piace moltissimo, di ogni esperienza vissuta e di tutto ciò che ci passa per la testa.
Ogni momento, ogni istante, più o meno significativo di vita, positivo o negativo che sia, va condiviso con gli altri attraverso centinaia di foto e video postati sui ‘social network’ (‘facebook’ e ‘instagram’) al fine di ricevere feedback altrui sentendosi paradossalmente meno soli di quanto siamo in realtà.
Perché i social danno per definizione la sensazione di essere “in contatto” e di essere “sociali” inserendosi di fatto nei nostri spazi di solitudine, riducendola.
Perché condividere frammenti di vita con altri se non per trarne una sensazione di piacere e gioia dovuta appunto alla condivisione? E’ proprio questo uno dei motivi che spinge non solo gli ‘influencer’ ma tutti noi ad iscriverci su ‘facebook’ e vari social postando la nostra vita.
Non come la citazione “tu fatti bella per te”, tratta da una famosa canzone di Paola Turci, che sembra non fare i conti con la vita reale in cui tutto viene fatto soltanto per sé stessi, per essere, poi, mostrato e condiviso, altrimenti si è meno felici.
Dobbiamo essere onesti: facciamo ben poco solo per noi, perché in verità non c’è vero gusto se gli altri non ci rispondono e non intervengono con il loro parere e con il loro modo di vedere e sentire le cose, lodandoci e/o disprezzandoci.
Ovviamente è molto meglio se siamo lodati; ma, in fin dei conti, va bene anche se, pur con dispiacere, siamo disprezzati, perché abbiamo, comunque, la sensazione di esistere o, meglio, di percepire il nostro essere parte del mondo che ci accoglie, semplicemente perché noi abbiamo piena consapevolezza che “il fine della vita è sempre l’amore”, che nel lessico psichico significa reciproca felicità, ottenibile solo attraverso la condivisione di affetti, la reciprocità, appunto, di qualcosa che non si ottiene da soli, ma insieme ad altri.
Dott.ssa Arianna Serafini
(*) (Laurea triennale in Psicologia – Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”)