Una volta che le case vengono svuotate dagli uomini, partiti per il fronte con un biglietto di sola andata, le donne restano sole. Non avendo l’incombenza della leva, sono più libere di potersi spostare senza dare troppo nell’occhio.
Si danno subito da fare, uniche «volontarie a pieno titolo nella resistenza» per citare le parole degli autori Bravo e Bruzzone. Fondano squadre di primo soccorso per aiutare i feriti, contribuiscono nella raccolta di indumenti, cibo e medicinali, si occupano dell’identificazione dei cadaveri e dell’assistenza ai familiari dei caduti. La Resistenza è anche femminile, e la storia delle donne – in qualsiasi epoca esse si siano trova – è caratterizzata dalla resistenza.
Armate o disarmate, d’ogni fascia sociale e di ogni professione, giovani e meno giovani, meridionali e settentrionali, antifasciste per scelta personale, tradizione familiare o più semplicemente “di guerra” – cioè per l’opposizione nata sulla base della quotidianità fatta di bombardamenti, fame e lutti, dei quali si incolpa a ragione il regime – le donne non offrono alla Resistenza solo un contributo, ma partecipano attivamente, ponendosi come elemento imprescindibile della lotta stessa nelle sue varie declinazioni.
Le più giovani e meno sospettabili diventano delle staffette, uno dei compiti più pericolosi in quanto disarmate. Delle ragazzine, probabilmente spaventate, dovevano portare a termine le loro missioni cercando di non dare troppo nell’occhio, la mano stretta alla borsa con il doppio fondo. Durante gli spostamenti, erano sempre in prima linea: quando l’unità partigiana arrivava in prossimità di un centro abitato, era la staffetta che per prima entrava in paese per assicurarsi che non vi fossero nemici e dare il via libera ai partigiani, per proseguire nella loro avanzata.
Protagoniste di una Resistenza senz’armi, fatta di piccoli grandi gesti di sopravvivenza quotidiana, le donne hanno compiuto una scelta di libertà. Ed è proprio per questo motivo che oggi è necessario parlare della Resistenza femminile: perché è stato un importante gesto di disobbedienza radicale, uno strappo con la società fortemente patriarcale e con l’educazione fascista che impone il rispetto di rigide gerarchie, sia dentro che fuori le mura domestiche. La stessa educazione che la condanna ad essere la pietra fondamentale della casa, la madre modello che ha come lavoro il matrimonio. Che non le permette di avere accesso alle facoltà scientifiche, perché “il genio è maschio” mentre la mente femminile è irrazionale. Può dedicarsi a ciò che sa fare meglio: prendersi cura degli altri, fare la maestra o la crocerossina. Ma queste donne non ci stanno, escono e si ribellano. Ed è grazie a loro se oggi le figure femminili non sono più relegate in casa, costrette a lasciare tutto il mondo agli uomini. Le storie della Resistenza continuano a parlarci con la voce del tempo che passa ma che non smette di portare insegnamenti. E ci raccontano storie di donne che non sono principesse in attesa del bacio salvifico di un principe, ma guerriere che escono per andare a prendersi la libertà.
Maria Ducoli