La Suprema Corte è cornata sul tema della segnalazione in centrale rischi di Banca d’Italia da parte degli intermediari bancari.
L’ordinanza della fine del 2020 non pone profili di novità rispetto a precedenti pronunce di analogo tenore. Ha consentito tuttavia di ricordare i tratti distintivi tra sussistenza di una situazione dell’impresa di insolvenza e di difficoltà economica.
Il problema è sorto in molti casi in cui l’imprenditore, a fronte di una situazione debitoria, magari temporanea, subiva una segnalazione di centrale rischi della propria posizione, come “a sofferenza”.
Chiari e prevedibili gli effetti di siffatto comportamento delle banche che, con automatismi decisamente preoccupanti, causavano gravi danni per la segnalazione sul sistema, che veniva letto da altri intermediari.
E’ sempre stato pacifico che la presenza di una esposizione debitoria non accordata, o fuori dall’accordato non è indice di una situazione critica dell’imprenditore, ma segnale, semmai, di momentanea indisponibilità di risorse che non ha nulla a che vedere con una imminente crisi.
La Cassazione ha quindi ribadito che ai fini della segnalazione a sofferenza, la nozione di insolvenza che si ricava dalle Istruzioni emanate dalla Banca d’Italia, sulla base delle direttive del Cicr, non si identifica con quella propria fallimentare, ma si concretizza in una valutazione negativa della situazione patrimoniale, apprezzabile come deficitaria, ovvero come di grave difficoltà economica, senza, quindi, alcun riferimento al concetto di incapienza o irrecuperabilità. Si deve, quindi, trattare di una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione d’insolvenza. È del tutto evidente, allora, che nell’apprezzamento che la banca deve compiere circa l’esistenza di una sofferenza, ai fini della verifica circa la legittimità della segnalazione presso la Centrale rischi, entri sicuramente in gioco la valutazione della consistenza patrimoniale del debitore. E ciò ben si comprende: il dato di una ipotetica alterazione del patrimonio può infatti concorrere a determinare l’insorgenza di quella situazione di grave difficoltà economica in cui la stessa sofferenza consiste. Basti pensare al caso in cui il debitore proceda a una gratuita dismissione di cespiti di valore: tale evenienza si traduce, come è ovvio, nell’impossibilità, da parte di quel soggetto, di far fronte alla propria inadempienza attraverso la monetizzazione dei detti beni.
Per cui le banche non possono seguire o inseguire il sillogismo, contrario ai principi emanati da Banca d’Italia, secondo il quale ad un debito (temporaneamente) non onorato corrisponde una situazione che sia dimostrativa tout court di una situazione di difficoltà, salvo che la banca dimostri tale stato, meritevole di essere segnalato sul sistema, in modo concreto e convincente, sulla base di fattori economici e patrimoniali dell’imprenditore.
Avvocato Luca Baj