Michela guarda il lago d’Iseo e sorride: le sembra di stare a casa. È nata a Varese, infatti, sulle sponde di un bacino simile al nostro, per poi trasferirsi a Clusone in età adulta. Si appassiona alla fotografia da piccola, guardando suo papà rendere eterni alcuni frammenti di esistenza. «Mi regalò una macchina fotografica e da quel momento non l’ho più lasciata».
Tra un compito di matematica e un’interrogazione di storia, Michela inizia a scattare le prime foto per un quotidiano locale, per lo più lavori stradali e tutte quelle piccole cose che a 18 anni ti permettono di fare esperienza. Macchina al collo e sogni nelle tasche dei jeans, Michela dopo il liceo frequenta una scuola di grafica e si avvicina alla fotografia pubblicitaria facendo da assistente ad un professore. Apre uno studio a Gallarate, ma il tarlo del fotogiornalismo le frulla per la testa come tutte quelle ambizioni che fanno giri immensi e poi ritornano. Inizia a collaborare con un giornale indipendente milanese, un po’ scrive e un po’ fotografa, cercando di apprendere il più possibile da Giuseppe Matteini, suo mentore. La prima volta che un suo servizio viene pubblicato su L’Espresso – su doppia pagina, tra l’altro – correlato da un articolo firmato da niente meno che Fabrizio Gatti, Michela vede un sogno realizzarsi. Sono passati anni, eppure le brillano ancora gli occhi a parlarne. I suoi reportage vengono pubblicati sulle principali testate nazionali: Panorama, Oggi, Vanity Fair, Sette, Donna Moderna, l’elenco potrebbe continuare ancora un po’.
Le fotografie di Michela raccontano storie dolorose di ragazzini malmenati dalla polizia nei campi profughi della Grecia, di Cicciobelli lividi scappati – insieme ai bambini che li tengono stretti – da padri e mariti violenti. Racconti di immigrazione, sofferenza e marginalità a colori, racconti di un’Italia che trema e Michela non può fare altro che oscillare con lei, sempre con la sua macchina fotografica al collo e il coraggio di chi è pronto a rischiare tutto per realizzare i propri sogni. Vive esperienze emotivamente molto forti, vede situazioni alle quali nessuno è preparato, conosce persone che non hanno nulla e le trasmettono moltissimo. Il reportage nei campi profughi di Patrasso è quello più duro. Quando arriva a casa scarica le foto e le lascia lì per qualche giorno, su uno schermo che non può percepire il dolore archiviato in cartelle. Ha bisogno di un po’ di tempo per metabolizzare tutto ciò che ha visto, per smaltire la frustrazione di aver preso quella nave per tornare in Italia senza aver potuto fare qualcosa di concreto per quei ragazzini senza patria.
La crisi arriva ed è invitabile. Michela si deve fermare, ritrovare, ripensare. Sposta l’obbiettivo della macchina dagli altri a sé, studia arteterapia e fonda Immagini In Movimento, tiene vari laboratori. È entusiasta di ciò che fa, ma il lavoro di prima le manca molto. «La fregatura del giornalismo – un mondo pieno di difficoltà – è il fatto che sia così meraviglioso che sei pronta a farlo, nonostante tutto e tutti».
Maria Ducoli