Un 60enne di Schilpario è arrivato fino alla Cassazione per contestare il pagamento di 1.200 euro di ammenda. Il tribunale di Bergamo nel 2013 lo aveva condannato per aver ucciso, il 7 ottobre 2012, una femmina di gallo forcello, anche noto come fagiano di monte. Era a caccia con il suo fucile, autorizzato, ma quell’esemplare non si poteva abbattere nel comprensorio della Val di Scalve perché appartenente alla avifauna tipica alpina.
Il difensore dell’imputato ha contestato il verbale di sequestro, sostenendo che fosse nullo perché la prova era stata distrutta anziché depositata nell’apposito ufficio. La prova è il corpo del reato, che nel caso erano le piume, determinanti per stabilire se l’esemplare fosse una femmina, quindi tutelata e non cacciabile. Inoltre, altra contestazione del legale, chi dice che non fosse stato il compagno di caccia a sparare dato che l’imputato era sotto il controllo di una guardia venatoria a 400 metri di distanza? Di conseguenza le piume costituivano l’unico elemento di prova. Unica prova esistente è il verbale di sequestro delle piume stesse. Ora, la terza sezione romana della suprema Corte di Cassazione ha dovuto scrivere le considerazioni di diritto con cui ha respinto l’impugnazione della sentenza dio condanna da parte della difesa dell’imputato. Il ricorso non è fondato, ha concluso la Corte: innanzitutto perché il giudice di merito ha rinvenuto la prova del fatto nella deposizione del teste che vide l’imputato sparare e abbattere il tetraonide; il giudice ha inoltre considerato il rinvenimento da parte dei verbalizzanti delle piume del colore tipico di un esemplare femmina.Tutto questo è stato riportato nel verbale di sequestro che in quanto atto irripetibile compiuto dalla polizia giudiziaria è stato incluso nel fascicolo del dibattimento e correttamente valutato dal giudice. Peraltro, fa presente la Corte, si può disporre la distruzione degli oggetti che possono essere pericolosi per l’igiene pubblica o che con il tempo si possono alterare. In conclusione, la Corte ha dichiarato che non importa se nel fascicolo non sono finite fisicamente le piume. La prova c’è. La condanna è dunque «congrua e di perfetta tenuta logica». Ma sul finale qualcosa è cambiato. Il cacciatore deve pagare in più 2.000 euro alla cassa delle ammende. Quasi il doppio dell’ammenda del 2013.