Cerca
Close this search box.

24 aprile 1986 ore 1:23 e 45 secondi, il reattore RBMK-1000 del blocco n°4 della centrale nucleare Vladimir Il’ič Lenin, situata a 3 km da Pryp e 18 km da Černobyl, esplode avvelenando l’aria di mezza Europa con una quantità considerevole di materiale radioattivo.

Tale evento viene oggi classificato come catastrofe nucleare di grado 7 su scala Ines, griglia creata dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. La miniserie statunitense scritta da Craig Mazin e diretta da Johan Rice, ripercorre le prime ore immediatamente precedenti e i mesi successivi al disastro, mantenendo come filo conduttore un aspetto imprescindibile per il periodo in cui l’evento si situa, il lento spirare del sistema sovietico giunto ormai al suo ultimo atto e che sembra pagare decenni di censure e omertà rispetto a crimi di cui ancora oggi non si conoscono a pieno gli orizzonti.

Cernobyl è la ciliegina sulla torta, la goccia che fa traboccare il vaso di un sistema votato al silenzio. Per Michail Gorbačëv, ultimo Segretario Generale del PCUS, la catastrofe nucleare rappresentò una delle cause della fine dell’URSS (avvenuta nel 1991); era impossibile tacere un tale fatto al mondo a fronte degli altissimi livelli di radioattività registrati pressoché ovunque.

La Guerra Fredda, come sappiamo, si fondava su uno scontro di forze che vedeva nel confronto bellico diretto l’estrema soluzione finale. Si trattava di un gioco di equilibrio, un Risiko del terrore silenzioso. La Russia sovietica aveva ripiegato ormai da tempo per la soluzione del comunismo in un “solo paese” e si limitava ad adottare continue pratiche difensive della propria autorità basata anche sul silenzio e sul controllo reciproco adottato dal KGB. Non a casa George Orwell ricalcò parzialmente la figura di Big Brother su quella di Stalin.

Se l’URSS riuscì per prima a mettere un satellite in orbita, gli USA dovettero rivedere l’intero piano aerospaziale per colmare il distacco a fronte della paura rossa; se gli USA avevano l’atomica, anche l’URSS doveva averla. Con Černobyl, il blocco sovietico arriva al canto del cigno. A fronte di un collasso economico nei paesi satelliti e per via di un dissapore dilagante, l’URSS espone il fianco in un settore tecnologico/bellico strategico nella determinazione della propria forza. A quest’aspetto però si associa un imprescindibile fattore umano, sondato grazie a fatti che sono tratti in buona parte dal libro della scrittrice Premio Nobel per la letteratura Svetlana Alexievich. In Preghiera per Černobyl, la scrittrice ripercorre le tappe di quella notte grazie alle testimonianze degli abitanti di Pryp, raccolte nei mesi e anni immediatamente successivi a quell’aprile 1986. È quest’aspetto che viene più ampiamento sondato e brutalmente sbattuto in faccia. Nessuno sapeva e nessuno si preoccupò tempestivamente di avvisare coloro che per generazioni pagheranno le conseguenze di quella notte.

Guardando le 5 puntate che compongono la miniserie è possibile vedere quanto essa sia focalizzata sul voler dar voce alle vere vittime di questi fatti; la catastrofe sembra essere una sorta di situazione straordinaria che mobilita una massa congelata nel rigore, fatta di persone che si spiano a vicenda e che poi si chiamano compagni. C’è chi minimizza, chi agisce per interesse e una sola triste targa che inchioda l’URSS come aguzzino che manda dei civili a liquidare una situazione per cui sanno già che la posta in gioco è la propria vita. Eppure il senso per la patria prevale, ma che cosa ne resta veramente in quel periodo se non un branco di ministri incapaci e un segretario diviso tra una volontà di apertura (Perestrojka per l’appunto) e un ceto dirigente conservatore?

Chi ha costruito quei reattori sapeva che vi era un difetto di progettazione potenzialmente allarmante, ma i fatti ci dicono che al 24 aprile 1986 in URSS vi erano operativi decine di questi reattori (al 2019 ancora 10 sono funzionanti seppur con straordinarie misure di sicurezza). In cosa consisteva tale difetto? Partiamo dal presupposto che una fissione nucleare è un delicatissimo processo di produzione di energia tramite lo scontro di atomi di uranio, cesio e altro materiale più o meno arricchito. Essendo altamente improbabile che due atomi di tali materiali si scontrino in una situazione normale, il nocciolo è rivestito di grafite, materiale in grado di rallentare la reazione per indirizzare meglio gli atomi e far sì che si scontrino. Alla base di ciò che si estrae da un nocciolo vi è quindi energia, al pari di quella prodotta con altre risorse come il sole per il fotovoltaico e l’acqua per le centrali idroelettriche. Qual è uno dei rischi aggiuntivi delle fissioni nucleari? Il fatto che operino con materiali radioattivi che necessitano di rimanere chiusi all’interno del nocciolo grazie a un tappo per poi essere smaltiti in modo opportuno.

Cosa non funzionò quella notte? Per quanto riguarda la componente umana possiamo chiamare in gioco l’inesperienza delle giovani leve scelte per fare un test di sicurezza sul reattore. Per quanto riguarda il fattore tecnico bisogna vedere alle barre di controllo del reattore che guarda caso sono la prova del difetto di progettazione. Nel caso in cui una fissione dovesse sfuggire di mano, i reattori RBMK presentano un pulsante chiamato AZ5 in grado di arrestare il processo tramite il reinserimento di queste barre di controllo che dovrebbero far diminuire l’energia. Dell’acqua subentra poi nel nocciolo per raffreddarlo. Al momento del test, basato sull’abbassamento progressivo della potenza del reattore per verificare che fosse in grado di operare anche in caso di black-out, qualcosa va storto e l’energia aumenta in maniera smisurata, fino a 100 volte di più rispetto ai dati di operatività di norma della struttura. Le barre vengono inserite per fermare il peggio, ma il nocciolo è incandescente e avvelenato dai fumi, l’acqua è evaporata, le barre iniziano a sciogliersi e nel reinserimento, per qualche secondo, reinseriscono prima la punta in grafite facendo schizzare alle stelle la fissione. Il resto è storia. Il tappo del nocciolo (del peso di più di 1 tonnellata) scoppia sfondando il tetto della struttura e tutto il materiale radioattivo si trova ora all’aria aperta colorando il cielo notturno d’azzurro.

I numeri dei morti e dei feriti annoverano ancora oggi una forte approssimazione per via di vari aspetti: l’indisponibilità dell’ex Unione Sovietica a fornire dati attendibili in merito, gli effetti dilatati nel tempo rispetto all’esposizione alle radiazioni e la possibilità che le stesse possano essere trasmesse nel tempo. Il bilancio ufficiale parla di 65 morti nelle settimane immediatamente successive comprese quelle dei 2 operatori della centrale morti sul colpo per effetto dell’esplosione (uno dei due corpi è ancora bloccato sotto il reattore e non può essere recuperato in quanto il tempo di dimezzamento della radioattività dell’uranio è di 25.000 anni). C’è poi una stima di oltre 4000 morti nei mesi e anni successivi per tumori e leucemie. Al tempo del disastro il numero di minori che si ammalarono alla tiroide furono del 2,8% superiori alle medie nell’area dal 1991 al 2005.

Le città di Černobyl e Pryp sono oggi luoghi fantasma in cui tour operator portano persone in una sorta di viaggio alla catastrofe. Il reattore 4 della centrale riposa sotto una struttura di cemento e acciaio chiamata The Scalf ovvero il sarcofago. Con quest’imponente struttura, il mondo sarà protetto dai flussi radioattivi per i prossimi 100 anni; esso continuerà a celare al suo interno i segreti che da sempre contraddistinguono quest’evento che semplicemente, citando una frase tratta dalla serie, è impossibile che sia accaduto.

Enrico Tironi (Studente IULM)